Perché sono molto poche le aziende che sono riuscite ad ottenere un successo simile a quello raggiunto da Toyota nonostante la diffusione delle tecniche TPS?
Un numero sempre crescente di realtà di successo riconosce che i maggiori problemi avuti nel loro percorso verso una trasformazione lean risiedono nella diffusione e nella sostenibilità del miglioramento all’interno di tutta l’organizzazione. Molto spesso le numerose attività fatte rimangono esercizi di applicazione del metodo. Progetti che, se pur di successo, non riescono a espandersi all’interno dell’organizzazione per creare la “cultura lean”.
Ecco quello che manca: cultura dell’organizzazione, di tutte le persone, di ciascuna di esse, indipendentemente dalla funzione, dal ruolo, dal livello. Dunque la domanda è: come creare la propria cultura lean, andando oltre alla semplice esecuzione dei progetti di miglioramento?
Lavorando direttamente in programmi di change management, mi sono costruita uno schema per rappresentare quello che, secondo me, è il fertilizzante naturale del terreno su cui stai facendo nascere le tue attività di miglioramento. Se curato quotidianamente, il tuo terreno sarà pronto per permettere ai semi non solo di crescere rapidamente, ma di espandersi ovunque. Il vento della curiosità verso il cambiamento trasporterà i semi ovunque, creando nuovi germogli anche laddove non hai seminato.
Lo snodo del problema è lo sviluppo delle persone, di tutte. Operando per priorità, è necessario partire dalle figure chiave dell’organizzazione; da coloro i quali gestiscono altre persone e che, quindi, sono in grado con i loro comportamenti di influenzare molte altre risorse aziendali. I capi squadra di produzione (o team leaders) ne sono un esempio e più in generale parliamo del supervisore, intendendo con questo termine chiunque abbia la supervisione dell’altrui lavoro.
Ma cosa significa sviluppo? Di seguito trovi la rappresentazione delle necessità, dei bisogni in termini di competenze e skills che ciascun supervisore di ogni area dovrebbe necessariamente possedere. Sono aspetti su cui si può e si deve lavorare: attraverso programmi di training e attività di tutoring operativo, chiunque può arrivare ad avere una valutazione quantomeno sufficiente in ciascuna delle categorie sotto riportate. Ma vediamo di cosa si tratta:
Conoscenze tecniche, dunque, solo ¼ dei requisiti per essere un buon supervisore. Ti stupisce?
Se si, significa che hai molto su cui lavorare ed è bene che inizi a prenderne coscienza.
Se, invece, stai provando a colmare i gap che sai di avere, capisci a pieno quanto questo percorso sia complesso e hai bisogno di impostare attività specifiche, mirate ad un tutoring quotidiano che possa evidenziare in campo i comportamenti non coerenti con il “nuovo” ruolo e possa correggerli attraverso feeback puntuali e dimostrazioni on the job di cosa andrebbe fatto.
E’ importante che le persone sappiano che cosa l’azienda si aspetta da loro. Che siano consapevoli che l’essere stati i miglior operatori non è sufficiente per essere un buon capo, perché le competenze di processo rappresentano solo il 25% di quello che è il loro profilo obiettivo.
Non sottovalutate questa fase! Ho volutamente evitato di parlare di job desciption, perché non credo che quello che oggi è presente in azienda in termini di descrizione del ruolo (laddove esiste) sia sufficiente ad assolvere a questa fase. Così come non credo che sia sufficiente scriverlo su un documento per essere in grado di esplicitarlo efficacemente. Ricordatevi che avete di fronte chi, da sempre, sta facendo del proprio meglio con i mezzi che crede idonei ad espletare un ruolo di cui non ha pienamente coscienza.
Capire cosa l’azienda si aspetta da chi ricopre un determinato ruolo non è semplice; ma calarlo su sé stessi ed essere in grado di comprendere in cosa siamo deboli, beh, questo vi assicuro che è molto molto complicato. Personalmente la ritengo la fase più critica. E’ umano avere sempre una buona spiegazione ad un insuccesso. Autoanalisi ed autocritica sono caratteristiche che richiedono una sicurezza in sé stessi non comune da trovare.
E’ quindi importante guidare questa presa di coscienza. Come? Il feedback è, in questo caso, lo strumento più utile in assoluto. Un feedback diretto, puntuale, trasparente e basato su fatti e non su sensazioni è sempre costruttivo, anche quando duro. Questo richiede presenza in campo, ovvero laddove si genera il comportamento errato, così come capacità di esplicitarlo nel modo corretto, per poterlo analizzare come fatto e non come giudizio trasformandolo in punto di partenza per la fase successiva.
Come si dice: tra dire e il fare c’è di mezzo il mare. Per chi lavora quotidianamente cercando di cambiare le prassi quotidiane è facile comprendere quanto sia complesso cambiare i comportamenti altrui. Non esiste una ricetta miracolosa, ma è fondamentale possedere due caratteristiche di base: costanza ed empatia.
Lavorare costantemente con le persone, mostrar loro un altro modo di fare le cose, un altro modo di gestire le proprie risorse, un altro modo di affrontare i problemi e di pensare alle soluzioni. Serve metterli nelle condizioni di vedere i risultati che arrivano dall’affrontare i problemi come opportunità, dal vivere le operations con un nuovo mindset.
Serve empatia, per farlo attraverso un percorso di costruzione e non solo di distruzione.
L’argomento, oltre che essere interessantissimo, si presta a milioni di considerazioni in merito agli strumenti operativi che possono essere associati a questo percorso che non deve rimanere solo comportamentale. E’, infatti, possibile e necessario creare strumenti veri e propri che possano aiutare chiunque a diventare un buon supervisor
Parliamo di standard work, di tag, di t-card, del sistema di proposte di miglioramento, di strumenti per la gestione del micromiglioramento quotidiano in postazione, della strutturazione della comunicazione Capo-Squadra e Capo-Direzione, .. e molto altro ancora. Ma direi che ciascuno merita un approfondimento specifico, che affronterò nei prossimi articoli.
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